È uscito “Il Foglio volante” di luglio
È pronto e sta
per essere spedito agli abbonati il numero di luglio 2016 del “Foglio volante -
La Flugfolio - Mensile letterario e di cultura varia”, che è al suo 31° anno di
vita.
Compaiono in
questo numero, che ha piú pagine del solito, le firme di Rinaldo Ambrosia,
Bastiano, Aurelia Bogo, Fabiano Braccini, Aldo Cervo, Carla D’Alessandro,
Francesco De Napoli, Walter De Santis, Jason R. Forbus, Giuseppe Furiano,
Amerigo Iannacone, Tommaso Lisi, Carmel Mallia, Martino Marangon, Luciano
Masolini, Alessio Mollichelli, Adriana Mondo, Teresinka Pereira, Nadia-Cella
Pop, Rosetta Sacchi, Antonio Staniscia, Gerardo Vacana, Adāo Wons.
Ricordiamo che
per ricevere regolarmente “Il Foglio volante” in formato cartaceo è necessario
abbonarsi. L’abbonamento – che dà diritto all’omaggio di tre libri delle
Edizioni Eva per un prezzo di copertina superiore al costo dell’abbonamento (20
euro) – serve anche a sostenere un foglio letterario che non ha altre forme di
finanziamento. Chi vuole ricevere copia saggio, si può rivolgere all’indirizzo:
fogliovolante@libero.it oppure al
numero telefonico 0865.90.99.50.
Riportiamo, qui
di seguito, l’articolo di apertura, “Fonetismo ed esperanto”, una nota dalla
rubrica “Appunti e spunti – Annotazioni linguistiche” e una breve poesia di
Tommaso Lisi.
Fonetismo ed esperanto
Spesso a noi italiani,
parlando con gli stranieri, capita di dire – nell’intento di elogiare la nostra
lingua – che l’italiano come si scrive cosí si legge. Sarebbe meglio se
parlassimo dell’eufonia dell’italiano, se dicessimo che è una lingua eufonica,
bella, tra le piú belle, se non la piú bella del mondo. Soprattutto per la
fonetica, con un giusto equilibrio tra vocali e consonanti. E poi l’italiano ha
un retroterra culturale che altre lingue non possono vantare. A partire dal
latino, di cui la lingua italiana è figlia, lungo la storia di una dozzina di
secoli da quel Sao ka kelle terre del
X secolo, attraverso il volgare della
Divina Commedia, e poi le opere
letterarie di Petrarca, Ariosto, Tasso, Alfieri, Foscolo, Leopardi, Manzoni e
le altre centinaia e centinaia di autori che hanno lasciato opere memorabili
nella storia della letteratura universale.
Dire che una lingua come si
scrive cosí si legge (o viceversa) è come dire che una lingua è fonetica, vale
a dire che a ogni fonema (suono semplice) corrisponde un grafema (segno
grafico) e viceversa: “casa”, quattro fonemi, due suoni vocalici e due
consonantici, quattro grafemi; “libro”, cinque fonemi, cinque grafemi. In
questo senso l’italiano è molto piú vicino al fonetismo di quanto lo siano
altre lingue. In francese, si scrive “eau” (tre grafemi), si legge “o” (un
fonema); in tedesco, si scrive “deutsche” (otto grafemi), si legge “doic’”
(quattro fonemi); in inglese si scrive “food” (quattro grafemi) e si legge
“fud” (tre fonemi); viceversa, si scrive “I” (un grafema) e si legge “ai” (due
fonemi). E si potrebbe continuare all’infinito.
Ma anche nella fonetica
italiana ci sono molte irregolarità. Solo qualche esempio: c’è un grafema a cui
non corrisponde alcun fonema (la H); ci sono grafemi a cui corrispondono fonemi
diversi (C e G, che possono essere palatali, come in “cena”, “gente” e
gutturali, come in “cane”, “gatto”); c’è un fonema che può essere rappresentato
da quattro grafemi diversi: C(h), K, Q e un pezzo di X; c’è un grafema (X) a
cui corrispondono due fonemi (KS); ci sono fonemi come “gl” di “aglio” e “gn”
di “gnocco”, rappresentati da due grafemi (digramma) e cosí via.
La nostra grammatica non è
particolarmente facile, ma è anzi piuttosto complessa. In particolare per i
verbi. Proviamo a esaminarli: esistono i tempi presente, imperfetto, passato
remoto, futuro semplice, passato prossimo, trapassato prossimo e futuro
anteriore, per l’indicativo; poi c’è il modo congiuntivo con quattro tempi, il
condizionale con due. Per ogni tempo ci sono sei desinenze, una per ogni
persona (prima, seconda e terza, singolare e plurale), e poi l’imperativo, il
gerundio, l’infinito, il participio. Se proviamo a calcolare il numero delle
desinenze, ne possiamo contare non meno di una ottantina, che dobbiamo
moltiplicare per tre, ovvero per le tre coniugazioni -are, -ere, -ire, e che
diventano quindi qualcosa come duecentocinquanta. E quando abbiamo imparato
tutte le desinenze, ci accorgiamo che ne abbiamo imparato solo una parte,
perché gran parte dei nostri verbi è irregolare: “andare”, non fa “io ando, tu
andi, egli anda”, ma “io vado, tu vai, egli va”, dove è addirittura la radice a
cambiare; il verbo “avere” non fa “io avo, tu avi, egli ava”, ma “io ho, tu
hai, egli ha”; il verbo “essere”, non fa “io esso, tu essi, egli essa”, ma “io
sono, tu sei, egli è”; il presente del verbo “morire” non è “io moro”, ma “io
muoio”; del verbo “finire” non è “io fino”, ma “io finisco”; dal verbo “dire”,
abbiamo “dico”; da “fare”, “faccio”; da “dovere” abbiamo “io devo, noi
dobbiamo”; il participio passato di “esigere” è “esatto” e non “esigiuto”; il
participio passato di “espellere” è “espulso”; il participio passato di
“dirimere” non esiste; eccetera eccetera. Verbi perfettamente regolari in
italiano non sono che una minoranza.
Ma in tutte le lingue
esistono eccezioni e controeccesioni, casi e sottocasi e nessuna lingua è
rigorosamente fonetica. Tutte le lingue eccetto una: l’esperanto. L’esperanto è
rigorosamente fonetico: a ogni fonema corrisponde sempre un grafema e
viceversa. E non esistono eccezioni. La grammatica si compone di sedici sole
regole, senza alcuna eccezione. Le desinenze verbali sono in tutto sei: -as
(presente), -is (passato), -os (futuro), -us
(condizionale), -u (imperativo), -i (infinito). Ecco un esempio: diri
(dire), diras (presente indicativo, per tutte le persone: dico,
dici, dice, diciamo, dite, dicono), diris (passato: dicevo, dissi, ho
detto), diros (dirò, dirai, ecc.), dirus (direi, diresti, ecc.), diru
(imperativo: di’, dite).
Provare per credere,
mettendo da parte i pregiudizi.
Amerigo
Iannacone
Annotazioni linguistiche
di Amerigo Iannacone
James
Bond e i bisonti
Lessemi presi a prestito da linguaggi
settoriali e riutilizzati con valore metaforico, si usano in genere per rendere piú accattivante, meno piatto, il
discorso, soprattutto nel linguaggio giornalistico. Una regola che vige nel
giornalismo vuole che la parola usata nel titolo non vada ripetuta né
nell’occhiello, né nel sottotitolo, né nel sommario, per cui spesso i
giornalisti per non derogare a questa regola s’inventano strane locuzioni:
qualche tempo fa in un giornale in cui in un titolo compariva la parola “neve”,
nel sommario il giornalista, per non ripetere la parola, s’inventò la strana
espressione metaforica “la bianca visitatrice”, che lascia piuttosto perplessi.
Ora, premesso che in linea di massima i
prestiti semantici sono accettabili, va detto che, come in ogni cosa, non
bisogna esagerare. Ed è invece quello che spesso accade. Per esempio invece
della parola “incontro”, otto volte su dieci i nostri giornalisti scrivono
“vertice”, che è il punto d’incontro degli spigoli e dei lati di un poliedro. Così
pure ogni motociclista diventa “centauro”, il mostro mitologico metà uomo e
metà cavallo e tutti gli autotreni
e autoarticolati diventano “bisonti della strada”. E praticamente non esiste piú la locuzione “agente segreto”, ma solo “007” o “zero
zero sette”. Ma, direi, ogni tanto lasciamolo riposare, James Bond, che ormai
ha una certa età.
Il piccione e... Napoleone
Il piccione che, alla stess’ora, tutti
i pomeriggi si riposa
sul camino di quella casa
davanti al mio balcone,
mi fa pensare all’attore John Wayne
che nell’ultima scena
di un film si mette in posa
sul suo cavallo, come
un pacifico Napoleone.
Coreno Ausonio, 28/05/2016
Tommaso
Lisi
Nessun commento:
Posta un commento